di Roberto Valentini

“La felicità/ sarebbe assaporare l’inesistenza/ pur essendo viventi neppure colti dal dubbio/ di una fine possibile”, scriveva Eugenio Montale in Altri Versi, riassumendo in tale paradosso quel nesso fra esistenza e dubbio che ne segna il percorso lungo i secoli dell’Occidente. Poiché se la sua assenza potrebbe persino lasciarci gustare il sapore friabile dell’inesistenza – “non esisto dunque sono”, declamava Carmelo Bene ne La voce di Narciso –, è proprio nella nebbia del suo quesito a ritrovarsi invece la prova suprema, dalla pietra miliare di Agostino in poi, del nostro essere: nam qui non est, utique nec falli potest, ac per hoc sum, si fallor (“non si può ingannare chi non esiste, se m’inganno per ciò stesso io sono”; La città di Dio, XI, 26). Quel che già Aristotele contestò al dubbio dello scettico, che cioè gli basti aprir bocca per contraddirsi da sé, non necessita di prove per decidere di una cosa almeno: che di tutto si possa diffidare tranne dell’esistenza del dubbio e del dubitante. L’argomento, che nella Metaphysica di Campanella si tinse di rinascimentali coloriture sensistiche – anche lo scettico dovrà ammettere che per dubium l’anima senta se stessa (notitia sui ispius innata) –, sarà in seguito tradotto dalle caravelle di Cartesio, stipato nelle loro argute meditationes, sul mare speculativo del celeberrimo cogito. Venne cioè eretto sulle fondamenta di una certezza, veridicità e realtà (fulcro, al di là della precedente natura della dimostrazione, d’un intero sistema) la cui genitura, occorre non dimenticarlo, fu e resta comunque la requisitoria del dubbio. Altrimenti detto per l’artefice del metodo l’insigne “cogito ergo sum” non scaturì da una autoevidenza immediata del pensiero, ma da una generalizzazione del “dubito ergo sum”: je doute, donc je suis, ou bien ce qui est la même chose: je pense donc je suis” (da La Recherche de la Vérité par la Lumière naturelle).
Che non sia tuttavia la medesima cosa non è solo l’obiezione di Nietzsche a suggerirlo – da esso si sarebbe potuto derivare non tanto l’Io-sono quanto semmai che “cogitationes sunt” (cfr. Der Wille zur Macht III, n. 484) –, ma proprio l’idea, ammissibile in forza di quella stessa affermazione (“penso dunque dubito”), che non si possa escludere di pensare senza essere; un Dio siffatto, cui il mondo, riconoscendolo, restituisca un riflesso d’esistenza nel cristallo della fede, non è infatti estraneo a tanta parte della tradizione mistico-teologica (un dio che dona l’esistenza poiché non la possiede), così come non è necessario attendere il padre dei Discorsi alla nazione tedesca per rinvenire l’idea di un esse sequitur operari/cogitari, di un agire che preceda l’agente (così Scoto Eriugena tratteggiò il santo teologo Giovanni come plus quam homo, colui che solo immergendosi nel carattere super-essenziale del divino poté coglierne il mistero generativo e annunciare: “in principio erat Verbum”).
Se dunque non fu l’evidenza del nuovo metodo introspettivo a fondare quella dell’Io-sono, ma viceversa proprio l’incertezza posta a suo abbrivo, perché rifuggirla o estirparla dal giardino della metafisica? Non la verità ma il dubbio si profila come baluardo del nostro sapere. Il timore di un dieu trompeur non incrinerebbe la nostra vita più di quanto la vaghezza dell’inganno la possa abbandonare innanzi allo spettro del nulla; quale volere si prenderebbe infatti gioco di noi se il genio maligno alligna forse giusto nel Grund dell’animo o nella spelonca della mente? Nel giardino dei “sentieri che si biforcano”, narrato da Borges quale possibile, crescente coalescenza di temporalità divergenti e convergenti, tale minaccia si riscatterebbe infatti nella traccia del piacere, nella consolazione che, proprio grazie alla negazione dell’io o all’esitazione intorno alla realtà del tempo, essa potrebbe ancora restituirci.
Sul terreno di tale perturbante meraviglia non sarà difficile immaginare l’ombra delle fronde sotto cui ritrovare la stessa indecisione del saggio: Chuang-tzu addormentato, trasformato in farfalla nella delizia del sogno, ma incapace al risveglio di sapere se egli sia davvero un uomo o piuttosto una farfalla che sogna d’essere Chuang-tzu. Un indugio che non si discosta da quello intorno al passaggio della morte, a quell’ulteriore valico sul crinale della permanenza (individuale o impersonale, del singolo o d’una coscienza universale) che, simile alla resurrezione dal sonno taoista, esso potrebbe lasciarci intravedere: “Esisto appena? […] Forse dall’altro lato della morte/ saprò se fui parola o fui qualcuno” (Borges, “Scorrere o essere”, da La Cifra).
In questa serena riproposizione dell’angoscioso dilemma di Amleto sul “paese dopo la morte” (“The undiscovered country, from whose bourn/ No traveller returns”), il suo altro lato pone certo innanzi a un salto decisivo; tuttavia, come ricorda Maurice Blanchot, “non nel senso che, attraverso la morte, noi passiamo all’ignoto, o che dopo la morte noi ci troviamo consegnati all’al di là insondabile. No: l’atto stesso di morire è questo salto, è la profondità vuota dell’al di là; il fatto di morire include un rovesciamento radicale, per cui la morte che era la forma estrema del mio potere […] diventa ciò che è senza relazione con me, senza potere su di me, ciò che è sciolto da ogni possibilità, l’irrealtà dell’indefinito” (M. Blanchot, Lo spazio letterario).
Non è forse il carattere di questa “indefinitezza” un altro nome del dubbio? Stringendone nelle nostre mani l’antico amuleto, potremmo allora già sapere d’essere in definitiva la parola di qualcuno, “sogni di sogni”, seppure ignorando la natura e il volto del sognatore (quel che si potrebbe ridurre nella domanda: “noi siamo coscienza, ciò nondimeno di chi?”).
Il tormento amletico, l’incertezza se esistere o morire, apparirebbe così meno cruciale e determinante, ignari se vivi o morti, rispetto al più radicale dubbio di essere: “Io morire?!.. / Sì d’accordo, si muore.. Ma non essere più…” (Carmelo Bene, Hamlet Suite). Poiché quella titubanza, tornando al principio del discorso, è appunto solo dell’essere, è giusto il pencolare fra sé e il nulla  – lo svolazzo d’un calligramma, quel “fra” disegnato dalla farfalla della domanda – a segnare lo scarto irriducibile del primo rispetto al secondo.
All’interrogativo leibniziano, “perché qualcosa piuttosto che il niente?”, si risponde talora con la teleologia, con l’osservazione che la presenza di una finalità nel mondo serva a garantire un’autoaffermazione dell’essere.  Il semplice fatto cioè che esso non sia incurante verso di sé proverebbe come la posizione di scopi e valori ne sancisca una superiorità rispetto al suo opposto, per definizione incapace di accoglierne; simile a una stanza rischiarata dalla lanterna dei fini questa sola circostanza lo proclamerebbe in ultimo sempre a favore di se stesso e contro il buio del nulla (una realtà indifferente ne sarebbe solo una variante, più imperfetta, sfregiata dalla completa assenza di senso).
Ebbene, forse potrebbe bastarci ancor meno, forse anche senza cavare il filo del telos dal baco del mondo, proprio un semplice, singolare, minuto ma incrollabile dubbio circa tale “assioma ontologico”, potrebbe paradossalmente fondarlo: dubitare, analogamente alla nostra consapevolezza  innanzi alla ignara supremazia dell’universo, non ci  garantirebbe già la dignità dell’essere nei confronti del suo ottuso avversario (quel nulla che non potrebbe dubitare di nulla)? Forse soltanto con un tributo al costante tentennamento della nostra debolezza riusciremo a cangiare anche l’infelicità nel gusto più appagante della bellezza vivente.
A tale riguardo rammento che circa vent’anni or sono, passeggiando in un giardino, ebbi occasione di meditare su tali questioni, su quell’ostinata ricerca di Cartesio e Leibniz, infaticabilmente impegnati a mettere al riparo dal dubbio non tanto l’esistenza dell’Onnipotente, ma la sua bontà; sugli sforzi per precipitare il genio maligno dai cieli del pensiero o attestare che questo, uomo compreso, sia il migliore dei mondi possibili. A un tratto fui improvvisamente sorpreso da una bizzarra creatura, posata come un punto di vivido colore su un drappo di rose gialle e carnicine. Osservandola con cura mi fu concesso il miracolo d’uno stravagante insetto, quello che in seguito scoprii essere un dittero Sarcophaga carnaria: una mosca avvolta da una corazza di smeraldo, un antico samurai con due ali di seta e un corpicciolo robusto e ammaliante, scrigno d’un gruzzolo di larve per la putredine della carne. Ebbi giusto il tempo di studiarlo con attenzione, di pensarlo al pari d’uno splendido demone, un’araba fenice emersa egualmente dalla morte, dalle braci d’altri esseri nell’imperscrutabile finalità del mondo. Dopo pochi istanti anch’essa svolò, senza che per altro (o forse sì) tutto precipitasse nel nulla. Mi lasciò tuttavia alcuni incerti, bizzarri ma chiari endecasillabi che, al pari di quelli gozzaniani, trovai nascosti sui petali vivaci, fra le rose dell’incongruenza:

 

 

Immoto sul ramo nerboruto,
tra i frùtici rista d’insetto un orrido
incanto, vago il riflesso di globi
amaranto, l’addome verdecupo;
leggermente poggiate le zampe
nel bòmbito delle sue ali di perla
inarca quella coccia di cinigia
e aduggia una grazia intransigente
i vepri del rosaio. Senza compito
né uggia assembra, sul punto di spiccarsi,
una carnaria mosca affermazione
dell’essere sul nulla (forse anche
l’infima natura può allignare
la perfezione certa delle forme);
sovrano di ramùre e di profumi
sopra il mondo che l’assume, ecco il piccolo
mostro barbagliante tra gli spini
come uno sfingico responso al nostro
dire che il cosmo ha senso e valga solo
se in esso siano ovunque intento e fini;
così pure, altrimenti l’intelletto
sarebbe qualità cieca e impotente,
sulla necessità meccanicista
rivale d’un Dio eterno ma incosciente.
Ma ora che rivolata è adesso un’altra
meraviglia, rimane alla domanda:
“perché il mondo e non…”. Ed allora è il monito
che mosca ed anima invischia sulle cose,
troppo eguali se di materia ordite
o libertà. Ma basti il vostro dubbio
e sentore (teleologia e bellezza
hanno la stessa vanità) o rose
che tra i boccioli sempre ci mentite.

 

 

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