Questo sito di FILOSOFIACONTEMPORANEA

deve indicare i suoi essenziali riferimenti simbolici che sono i seguenti:

I° – il primo

sta nell’icona della homepage tratta dall’affresco di Raffaello Sanzio
che, nella Stanza vaticana della Segnatura, raffigura la Scuola d’Atene.
In questa meditata semplicità, la “Scuola d’Atene”,
pur risultando lì composta esclusivamente da filosofi
(chiaramente assorti nell’atteggiamento caratteristico dei perdigiorno
di ogni piazza e paese) va intesa
non nel senso esclusivamente ideale ivi indicato dal divino Platone –
per il quale ogni sapere deve essere superato nella sintesi più alta –,
e
neppure nel senso esclusivamente positivo-istituzionale
dell’invincibile Aristotele – che sa dare il giusto senso a ogni tipo di sapere –

bensì nel senso altamente pedagogico-politico di
Tucidide – lo storico delle Guerre del Peloponneso.
Lo storico è quello che, apparentemente, arriva troppo tardi,
all’imbrunire, come la nòttola di Minerva. E spera che, passata la nottata,
la sua narrazione dei fatti possa essere considerata
dai posteri e dai contemporanei come una “acquisizione per sempre”,
un viatico per le generazioni future –. È Tucidide che fa parlare
Pericle –
il politico che non molla, per il quale non è mai troppo tardi,
che opera senza protestare coi materiali offerti dal destino e che,
commemorando i caduti ateniesi nel primo anno di guerra,
impavido,
è ancora e sempre impegnato nel bilancio della possibile vittoria –.

Lanciato da un ghost writer come Tucidide,
Pericle dichiara tra l’altro che Atene è “la scuola dell’Ellade”
(avete inteso bene: la scuola dell’Ellade… è Atene!).

La circostanza: tra la Iª e la IIª Guerra del Peloponneso,
– sicuramente fatale per il destino dell’Ellade –, permette a
Pericle, – questo grande personaggio tragico
che lo storico Tucidide ci offre –
di tenere saldamente in pugno lo spirito ellenico, la
quotidianità ellenica, nella commemorazione, nella festa e nel lutto,
di saldare nell’atto stesso i vivi e i morti e
di glorificare lo straordinario modello di civiltà
costituito dal way of life ateniese.

Prendiamone dunque atto: i filosofi greci sono grandi non solo
perché convengono da tutta l’Ellade a costituire la scuola d’Atene,
ma anche perché sanno che
Atene – non la “scuola d’Atene” – è la scuola dell’Ellade.

Ma cos’è allora l’“Ellade”
(per noi che ne siamo contemporanei) se non
l’impero universale
in cui noi, i figli di Aristotele e di Alessandro Magno siamo,
insieme, cittadini della nostra polis e cittadini del mondo?

E in effetti lo siamo stati dapprima
con i Macedoni, poi
con i Romani, poi
nella lunga crisi medioevale con i Romano-cristiani e gli Arabo-mussulmani,
infine, via via, in maniera combattuta e tendenziale
con gli Anglo-sassoni,
i fondatori di un nuovo tipo di impero universale,
oggi
padroni e gestori di due parole greche (la “democrazia” e la “tecnica”),
perché a loro è toccato in sorte di inventare una
middle class planetaria:
il mercato mondiale come
cittadinanza universale. Un fenomeno storico
– grande per la distanza, come la montagna dell’Ulisse dantesco –,
del quale, ovviamente,
non sono mai stati all’altezza.

Un nuovo tipo di impero che,
erede nello spirito di quello romano
lascia la materia ai suoi volgari imitatori.
Nuovo,
perché fatto più di molte negazioni
che di un solo dogma,
perché fondato sulla libertà dei mari e dei commerci
al di là della Manica,
e non sulle nuragiche fortezze territoriali delle potenze continentali
al di qua e al di là del Mediterraneo.

L’impero, che è per definizione universale e pacificatore,
non può essere
imperialismo che, anzi, ne è la negazione. Anche per questo
(in tutte le sue lente contraddizioni secolari),
l’impero di mezzo, il cosiddetto Sacro Romano Impero,
nel suo lato platonico, gerarchico e feudale, e
nel suo lato barbarico-turnario di Nazione germanica,
che vide il mondo subito spaccato in due
sia al suo interno tra Germània e Romània,
sia all’esterno tra Cristianità e Islam,
fu un impero fallito.

E perciò anche il recente moto liberale ottocentesco delle
nazionalità,
era destinato a esplodere nella rovina degli “Imperi centrali”,
ma ancor più nel conflitto degli imperialismi nazionali,
cesaropapisti,
che da quella rovina uscivano trionfanti.
Lo spirito aristocratico di Ivan Ilič,
che aveva letto Hegel, lo vide subito e fu invero,
universalmente,
il trionfo della morte.
Sì che oggi, siamo in attesa che La Cina, L’India, Le Americhe,
La Russia e L’Europa stessa tornino ad ascoltare il devastato giardino
originario dell’Umanità: l’Africa. E a far rifiorire il deserto.

II° – L’altro

riferimento è la sentenza crociana secondo la quale
la filosofia è sempre filosofia contemporanea
e non abbandona mai i fatti storici. Una sentenza che Gentile
condensa e sublima nel formalismo assoluto dell’atto puro.
E vi insistiamo proprio per tacitare l’objezione ingenua secondo cui
la Scuola d’Atene, essendo greca e antica, sarebbe tutto fuorché contemporanea.
Ma questa apparente ovvietà è quanto di meno filosofico ci sia e
ci vergogniamo di confutarla con argomentazioni che, a chi osa
muovere una simile objezione, potrebbero apparire capziose.
Frequentando questo Sito si dovrebbe ben presto
cambiare idea.

Benedetto Croce e Giovanni Gentile sono i filosofi della “Nuova Italia”,
quell’Italia che non poteva nascere se non sulle ceneri dello
Stato pontificio (1870),
così come i moderni Stati nazionali europei non erano potuti
nascere se non sulle ceneri del Papato e dell’Impero, ossia:
sulla fine di quel patto di inclusione reciproca che fu
consacrato da Carlo Magno e da Leone III nell’anno 800 d. C. e
sconsacrato da Napoleone nel 1806.
Se l’autoincoronazione di Napoleone segnò la scomparsa del falso
Impero di mezzo,
la presa dell’antico “colle” di Porta Pia (dove nacquero Roma e
l’impero) segnò con altrettanta forza simbolica la scomparsa del
falso Papato. Dopo la denuncia della
falsa Donazione costantiniana e dopo la
Riforma luterana, la
presa di Porta Pia liberava definitivamente sia gli Italiani che
la Cristianità per
una nuova inaudita cittadinanza spirituale capace di ereditare
tutto il passato.
Ma la “Nuova Italia” non fu e non doveva essere la nascita di un ulteriore statonazionale
compatto, etnico, chiuso in un modello di stato napoleonico,
in cui traspare secolarizzata l’antica tradizione carolingia,
bensì
di quello stato che comincia faticosamente a essere ora:
mobile e diverso, libero e aperto. Così
i grandi uomini del Movimento tedesco,
il prussiano Kant e il renano Goethe per primi, erano consci
della loro tradizione federale, e sapevano che
la Germania doveva mantenere la sua gloriosa identità barbarica:
quella di una realtà spirituale pluralista, individuale e cosmopolita.
I posteri
stentarono invece a riconoscere che
nessuna tradizione tedesca (neppure quella prussiana) giustificava
una bandiera più sideralmente estranea e nemica di quella
imposta poi alla Germania da Hitler
(ein Volk, ein Reich, ein Führer!).

Per una ragione analoga, dal canto suo, la Nuova Italia
non solo non poteva farsi trampolino di lancio di una nuova
confessione religiosa sovranazionale e missionaria,
dédita a un proselitismo aggressivo di poca fede,
ma neppure doveva
cadere nel nazionalismo e in un imperialismo retorico e arcaico come quello fascista.
E non basta invocare il pericolo del sovietismo bolscevico (anche Orwell,
anche Köstler l’hanno fatto e Mandel’stam e Solgenitzin gli hanno dato ragione!)
per giustificare una reazione tanto imitativa, tanto passiva,
tanto sconsiderata e violenta.
Oggi alla sharìa islamica (che sembra voler ripercorrere vecchie vie
anche da noi fino in fondo percorse nell’età di mezzo e
saldare vecchi conti ingialliti)
si affiancano con frequenza crescente
sulla scena planetaria
atti di nuovi stati emergenti, come Brasile, India e Cina che sembrano imitare goffamente
i vecchi nazionalismi europei…

Nonostante le speranze di Tucidide, passata la nottata si constata
per lo più che i possedimenti, i tesori, i lasciti dei padri
sono stati dai figli miseramente scialacquati e giacciono,
dispersi, sul terreno.
Povera e nuda,
la filosofia deve chinarsi umilmente a raccogliere i cocci che,
vecchi e nuovi, sono e restano sempre suoi.

In ogni caso,
questi due filosofi
sono i riferimenti storici indispensabili per capire la specificità
del pensiero filosofico in Italia, tenendo tuttavia presente,
da un lato che in tutto il mondo fioriscono splendide filosofie,
e dall’altro che le scelte ideologiche c’entrano – col pensiero filosofico
e con quello politico – come i cavoli a merenda.
Per capire
la politica bisogna pensare (ma per fare politica no) e analogamente: per capire
la filosofia bisogna pensare (ma per fare filosofia no).
Il fare è sempre molto più ricco e complesso del pensare, al punto
che la stessa semplicità del pensiero
se vogliamo spiegarla, sembra
ribellarsi e si fa complicatissima.
Perfino in questo caso vale dunque il principio che,
se si vogliono mettere
le mutande di ferro
all’azione (e anche il pensiero è un’azione), questa ne soffre e langue.
È il mistero del
rapporto tra il pensiero e l’azione, o meglio: è il mistero della
riflessione. Ma è proprio nella riflessione (un ambiente sterile in cui
gli altri batteri muoiono) che vive
il batterio della filosofia
(anche quello della filosofia tedesca o americana: in questo, tutte le
filosofie sono uguali, tutta la filosofia contemporanea è
all’80%
ancora, e sempre ancora, come vide Raffaello, filosofia greca).

Se Croce difende il punto di vista dello storicismo assoluto,
in base al quale la filosofia è sempre filosofia contemporanea,
Gentile propone il formalismo assoluto dell’atto puro
in base al quale la filosofia (che dovunque è presso di sé) è presso di sé dovunque.

In una ipotetica attualizzazione grafica della Scuola d’Atene di Raffaello, potremmo
sovrapporre a Platone un Gentile con le braccia conserte,
mentre Croce potrebbe occupare il proprio posto accanto a lui come
un Aristotele con le braccia aperte sul mondo.
Come le loro archetipiche posture greche, queste due ultime
posizioni si possono riassumere nell’assioma vichiano:
verum ipsum factum”,
che esprime in un senso fenomenologicamente nuovo (moderno)
la tesi antica e medievale della convertibilità dei
concetti trascendentali.
Tutto il sapere della tradizione ellenica,
compresi il metodo sperimentale di Galileo e l’analisi del
modo di produzione capitalistico di Adam Smith,
può ancora essere considerato un’interpretazione di
questa tesi antichissima.
Che si presenta per lo più secondo due serie: come passaggio dai
fatti (factum) ai pensieri o come passaggio dai pensieri (verum)
ai fatti. Ma si può anche parlare
di circolarità o di reciprocità tra le due serie
(perché, ripetiamo: la cosa più complessa è la semplicità).

(Alfredo Marini)

 

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